E venne Rossini.
Rossini è un titano. Titano di potenza e d' audacia. Rossini è il Napoleone d' un' epoca musicale. Rossini, a chi ben guarda, ha compíto nella musica ciò che il romanticismo ha compíto in letteratura. Ha sancito l' indipendenza musicale: negato il principio d' autorità che i mille inetti a creare volevano imporre a chi crea, e dichiarata l' onnipotenza del genio. Quand' egli venne le vecchie regole pesavano sul cranio all'artista, come le teoriche d' imitazione, e le viete unità aristoteliche del classicismo inceppavan la mano a qualunque s' attentava di scriver drammi, o poemi. Ed egli si pose vendicatore di quanti gemevano, ma non osavano d' emanciparsene, di quella tirannide; gridò rivolta, e osò. Codesta è lode suprema; forse s' ei non osava -- se ai vecchi che gracchiavano: non fate, ei non si sentiva l' animo di rispondere: fo -- non rimarrebbe a quest' ora speranza di risorgimento alla musica, dal languore che minacciava occuparla ed isterilirla. Rossini, ispirandosi ad un bel tentativo di Mayer, e al genio che gli fremeva nell'anima, ruppe i sonni e l' incanto. Per lui la musica è salva. Per lui, parliamo oggi d' iniziativa musicale europea. Per lui, possiamo, senza presumere, aver fede che questa iniziativa escirà d' Italia e non d' altrove. Non però giova esagerare o frantendere la parte che spetta a Rossini ne' progressi dell' arte; la missione ch' egli s' assunse, è missione che non esce da' confini dell' epoca ch' oggi gridiamo spenta o vicina a spegnersi. È missione di genio compendiatore, non iniziatore. Non mutò, non distrusse la caratteristica antica della scuola italiana: la riconsacrò. Non introdusse un nuovo elemento che cancellasse o modificasse potentemente l' antico: promosse l' elemento dominatore al piú alto grado di sviluppo possibile; lo spinse all' ultima conseguenza: lo ridusse a formola, e lo ricollocò su quel trono d' onde i pedanti l' avevan cacciato senza pur pensare, che chi strugge un potere, ha debito di sostituirne un migliore. E i molti che guardano anch' oggi in Rossini, come in un creatore di scuola e di epoca musicale, come nel capo di una rivoluzione radicale nella tendenza e ne' destini dell' arte, travedono, dimenticano le condizioni nelle quali, poco innanzi a Rossini, si stava la musica, commettono lo stesso errore che s' è commesso intorno al romanticismo letterario da quanti han voluto trovarvi una fede, una teorica organica, una nuova sintesi di letteratura, e -- quel che è peggio -- perpetuano il passato, pur gridando avvenire. Rossini non creò, restaurò. Protestò -- ma non contro l' elemento generatore, non contro il concetto primitivo fondamentale della musica italiana; bensí a favore di quel concetto obliato per impotenza, contro la dittatura de' professori, contro la servilità dei discepoli, contro il vuoto che gli uni e gli altri facevano. Innovò, ma piú nella forma che nell' idea, piú ne' modi di sviluppo e d' applicazione che nel principio. Trovò nuove manifestazioni al pensiero dell' epoca; lo tradusse in mille guise diverse; lo incoronò di cosí minuto intaglio, di tanta fecondità d' accessorii, di tanto fiore d' ornato, che taluno potrà forse sederglisi a fianco, non superarlo: lo espose, lo svolse, lo tormentò fin che l' ebbe esaurito. Non lo varcò. Piú potente di fantasia che di profondo pensiero, o di profondo sentimento, genio di libertà e non di sintesi, intravvide forse, non abbracciò l' avvenire. Fors' anche privo di quella costanza e di quell' alterezza d' animo che non guarda, se non dietro le esequie, alle mille generazioni vegnenti, anziché a quell' una che si spegne con noi, cercò fama, non gloria; sacrificò all' idolo il Dio; adorò l' effetto, non l' intento, non la missione; però gli rimase potenza a costituire una setta, non a fondare una fede. Dov' è in Rossini l' elemento nuovo? Dove un fondamento di nuova scuola? Dove un concetto unico, dominatore di tutta la sua vita artistica, che armonizzi a epopea la serie delle sue composizioni? Chiedetelo ad ogni scena, o meglio ad ogni pezzo, ad ogni motivo delle sue musiche; non al sistema, non all' opere, non ad un' opera intera. L' edificio ch' egli ha innalzato, come quel di Nembrotte, ferisce il cielo; ma v' è dentro, come in quel di Nembrotte, confusione di lingue. L' individualità siede sulla cima: libera, sfrenata, bizzarra, rappresentata da una melodia brillante, determinata, evidente, come la sensazione che l' ha suggerita. Tutto in Rossini è appariscente, definito, saliente; l' indefinito, lo sfumato, l' aereo, che parrebbero appartenere piú specialmente all' indole della musica, han dato luogo, quasi fuggenti dinanzi all' invasione d' uno stile avventato, tagliente, d' una espressione musicale positiva, risentita, materialista. Diresti le melodie rossiniane scolpite a basso-rilievo. Diresti fossero sgorgate tutte dalla fantasia dell' artista sotto un cielo d' estate di Napoli, in sul meriggio, quando il sole inonda su tutte cose, quando batte verticalmente, e sopprime l' ombra de' corpi. È musica senz' ombra, senza misteri, senza crepuscolo. Esprime passioni decise, energicamente sentite, ira, dolore, amore, vendetta, giubilo, disperazione -- e tutte definite per modo che l' anima di chi ascolta è interamente passiva: soggiogata, trascinata, inattiva: -- gradazioni d' affetti intermedi, concomitanti, non sono o poche: aura del mondo invisibile che ci circonda, nessuna. Spesso l' istrumentazione accenna un eco di questo mondo e par si affacci all' infinito; ma quasi sempre retrocede, s' individualizza, e diventa anch' essa melodia -- Rossini, e la scuola italiana di che egli ha riassunto e fuso in uno i diversi tentativi, i diversi sistemi, rappresentano l' uomo senza Dio, le potenze individuali non armonizzate da una legge suprema, non ordinate a un intento, non consacrate da una fede eterna.
La musica tedesca procede per altra via. V' è Dio senza l' uomo, immagine sua sulla terra, creatura attiva e progressiva chiamata a svolgere il pensiero di che l' universo terreno è simbolo. V' è tempio, religione, altare ed incenso; manca l' adoratore, il sacerdote alla fede. -- Armonica in sommo grado, rappresenta il pensiero sociale, il concetto generale, l' idea, ma senza l' individualità che traduca il pensiero in azione, che sviluppi nelle diverse applicazioni il concetto; che svolga e simboleggi l' idea. L' io è smarrito. L' anima vive, ma d' una vita che non è della terra. Come nella vita de' sogni, quando i sensi tacciono, e lo spirito s' affaccia ad un altro mondo, dove tutto è piú lieve, ed il moto piú rapido, e tutte imagini nuotano nell' infinito, la musica tedesca addormenta gl' istinti e le potenze della materia e leva l' anima in alto, per lande vaste ed ignote, ma che una rimembranza debole, incerta, t' addita come se tu le avessi intravvedute nelle prime visioni d' infanzia, tra le carezze materne, finché il tumulto e le gioie e i dolori della terra, che calpestiamo, svaniscano. È musica sovranamente elegiaca: musica di ricordi, di desiderii, di melanconiche speranze e di tristezza che non possono aver conforto da labbra umane: musica d' angioli che hanno perduto il cielo, e v' errano intorno. La sua patria è l' infinito, e v' anela. Come la poesia del Nord, quando almeno non è sviata da influenza di scuole straniere e serba l' indole primitiva, la musica germanica passeggia leve leve su' campi terrestri, e sfiora il creato, ma con gli occhi rivolti al cielo. Diresti non appoggiasse il piè sulla terra che per lanciarsi. Diresti una fanciulla nata al sorriso, ma che non ha trovato un sorriso che risponda al suo, piena l' anima d' amore, ma che tra le cose mortali non ha trovato cosa che meritasse d' essere amata, e sogna un altro cielo, un altro universo, e in quello una forma, la forma dell' ente che risponderà all' amor suo, al suo sorriso di vergine, e ch' essa adora senza conoscerlo. E quella forma, quel tipo di bellezza immortale, appare e riappare ad ogni tanto nella musica tedesca; ma fantastica, indeterminata, pennelleggiata a contorni. È una melodia, breve, timida, disegnata sfuggevolmente; e mentre la melodia italiana definisce, esaurisce, e t' impone un affetto, essa lo affaccia velato, misterioso, appena tanto che basti a lasciarti la memoria e il bisogno di ricrearlo, di ricomporre da per te quella imagine. L' una ti trascina a forza fino agli ultimi termini della passione, l' altra t' accenna la via e poi ti lascia. La musica tedesca è musica di preparazione, musica profondamente religiosa, bensí d' una religione che non ha simbolo, quindi non fede attiva e tradotta ne' fatti; non martirio; non conquiste: ti stende intorno una catena di gradazioni maestramente annodate; t' abbraccia d' un' onda musicale d' accordi, che cullandoti, ti solleva, sveglia il core; suscita la fantasia, suscita le facoltà quante sono: a qual prò? -- Tu ricadi, cessata la musica, nel mondo della realità, nella vita prosaica che ti brulica intorno, colla coscienza d' un mondo diverso, che ti s' è mostrato lontanamente, non dato -- colla coscienza d' aver toccato i primi misteri d' una grande iniziazione, non iniziato, non piú forte di volontà, non piú saldo contro gli assalti della fortuna. Manca alla musica italiana il concetto santificatore di tutte imprese; il pensiero morale che avvia le forze dell' intelletto, il battesimo d' una missione. Manca alla musica tedesca l' energia per compirla, l' istrumento materiale della conquista; manca, non il sentimento, ma la formola della missione. La musica italiana isterilisce nel materialismo. La musica tedesca si consuma inutilmente nel misticismo.
Cosí procedono le due scuole, separate, gelose, rivali, e si rimangono, l' una scuola prediletta del Nord, l' altra scuola meridionale. E la musica che noi presentiamo, la musica europea non s' avrà se non quando le due, fuse in una, si dirigeranno a un intento sociale -- se non quando, affratellati nella coscienza dell' unità, i due elementi che formano in oggi due mondi, si riuniranno ad animarne un solo; e la santità della fede che distingue la scuola germanica benedirà la potenza d' azione che freme nella scuola italiana; e l' espressione musicale riassumerà i due termini fondamentali: l' individualità e il pensiero dell' universo, -- Dio e l' uomo.
È utopia codesta?
Anche la musica di Rossini era utopia a' tempi di Guglielmi e di Piccini. Anche la poesia gigantescamente sintetica dell' Alighieri, quando l' Arte si stava confinata nelle ballate de' trovatori provenzali, e nelle rozzezze di Guittone, era utopia. E chi avesse profetato a quei tempi: verrà un poeta che riassumerà cielo e terra ne' suoi poemi, che lingua, forma, possanza, trarrà tutto dal nulla, mercé il suo genio: che concentrerà ne' suoi versi tutta l' anima del medio Evo, piú il concetto dell' Era avvenire; che farà d' una cantica un monumento nazionale e religioso, visibile a' posteri piú remoti, che cinque secoli innanzi alle prime tendenze, a' primi dubbi sviluppi, consegnerà ne' suoi libri, incarnerà nella sua vita il principio della missione italiana in Europa -- avrebbe trovato credenti, o derisori in Italia? Pur Dante venne, e fondò; ed oggi dall' opere sue si desumono le norme che reggeranno rinata la nostra letteratura, e si desumeranno piú tardi, quando i libri di Dante avranno lettori piú degni di lui, le origini di ben altri concetti e gli augurii de' fati italiani.
E quand' io mi soffermo al tramonto, coll' anima stanca del presente, e sconfortata dell' avvenire, davanti ad un di que' templi a' quali un' ignoranza tradizionale ha decretato il nome di Gotici, e contemplo e vedo l' anima del Cristianesimo versarsi tutta dall' edificio, e la preghiera curvarsi in arco, serpeggiare salendo per le spire delle colonne, slanciarsi al cielo su per le guglie, e il sangue de' martiri misto a' colori della speranza, esibirsi a Dio, come suggello di fede, sulle lunghe invetriate, e lo spirito del credente errare nell' aspirazione all' infinito, sotto l' ampie e misteriose volte della cattedrale, e Cristo scendere dalla immensa cupola al santuario, e allargarsi alle vaste pareti, e abbracciar del suo amore e d' una benedizione l' intera chiesa, e popolandola tutta intorno de' suoi apostoli, de' suoi santi, de' suoi confessori, narrare al popolo dei fedeli la tradizione cristiana, e le persecuzioni patite, e gli esempli di virtú, di rassegnazione, di sacrificio, e a quando a quando tuonar la sua legge per l' Organo: -- allora -- e per quanto sia vasta la missione che l' epoca impone -- non dispero dell' Arte, né della sua potenza, né de' miracoli che il genio può trarne. Che? una sintesi, un' epoca, una religione s' è sculta in pietra: l' architettura ha potuto riassumere in una cattedrale il pensiero dominante di dieciotto secoli -- e la musica nol potrà? E se non rispingete il concetto d' una pittura, d' una letteratura sociale, perché v' arretrate davanti all' idea d' una musica sociale? La sintesi d' un' epoca s' esprime in tutte l' arti dell' epoca, e le domina nel suo spirito tutte -- e la musica sintetica e religiosa sovra tutte per natura inseparabile, propria; la musica che incomincia là dove s' arresta la poesia, e procede direttamente per formole generali dove l' arti sorelle abbisognano, per salire a quelle, di muovere da casi e soggetti speciali; la musica ch' è l' algebra dell' anima onde vive l' umanità, si rimarrà sola inaccessa alla sintesi europea, straniera all' epoca, fiore svelto dalla corona che l' universo elabora al suo fattore? E sulla terra di Porpora e Pergolesi, sulla terra che ha dato Martini all' armonia, Rossini alla melodia, dispereremo che un genio sorga, il quale affratelli in sé le due scuole, e interpreti, purificandolo, in note il pensiero di che il secolo XIX è iniziatore agl' ingegni?
Quel genio sorgerà. -- Maturi i tempi e i credenti che dovranno venerarne le creazioni: sorgerà senza fallo. Né io qui m' assumo dire il come, o per che vie verrà da lui raggiunto l' intento. Le vie del genio sono segrete, come quelle di Dio, che lo spira. La critica deve e può presentirne, ne' bisogni generali, la nascita, dichiarare quali e quante sono le urgenze de' tempi, preparargli il popolo e sgombrargli il cammino -- non altro; né io intendo varcar questi limiti.
Oggi urge l' emancipazione da Rossini, e dall' epoca musicale ch' ei rappresenta. Urge convincersi ch' egli ha conchiusa, non incominciata una scuola -- che una scuola è conchiusa, quando, spinta all' ultime conseguenze, ha corso tutto lo stadio di vitalità che ad essa spettava -- ch' ei l' ha spinta fin là, e che l' insistere sulla via di Rossini è un condannarsi ad esser satellite, piú o meno splendido, ma pur sempre satellite. Urge convincersi che, a rifiorire, la musica ha bisogno di spiritualizzarsi -- che a levarla potente, è necessario riconsecrarla con una missione -- che a non rovinarla nell' inutile o nello strano è mestieri connettere, unificare questa missione colla missione generale dell' Arti nell' epoca, e cercarne nell' epoca stessa i caratteri: in altri termini, farla sociale, immedesimarla col moto progressivo dell' universo. -- Ed urge convincersi che si tratta in oggi, non di perpetuare o rifare una scuola italiana, bensí di cacciar dall' Italia le fondamenta d' una scuola musicale europea.
E scuola musicale europea non può essere se non quella che terrà conto di tutti gli elementi musicali che le scuole parziali anteriori hanno svolto, e senza sopprimerne alcuno, saprà tutti armonizzarli e dirizzarli ad un unico fine. Però, dicendo ch' urge in oggi l' emanciparsi da Rossini e dalla scuola ch' egli ha riassunta, guardo unicamente allo spirito esclusivo di quella scuola, al predominio esclusivo della melodia, all' esclusiva rappresentanza della individualità che la informa, che la rende frazionaria, ineguale, sconnessa, e la condanna al materialismo, peste di tutte Arti, di tutte dottrine, e di tutte imprese. E guardo al divorzio che s' è consumato per quella scuola tra la musica e l' andamento della società, all' avvilimento che la riduce trastullo d' una impercettibile minorità, alle abitudini venali o frivole che s' impossessano dell' Arte santa -- non all' emancipazione da quella individualità, che dovrà pur sempre costituire il punto d' onde muova ogni musica, e il cui difetto pone nella musica tedesca un vuoto che le toglie metà della vita.
L' individualità è sacra. E non che sopprimersi, dovrà nella musica avvenire ampliarsi, estendersi a cose non curate da' compositori di drammi, ed assumere gravità di carattere filosofico, dov' oggi non è che slancio di riazione e protesta in favore d' una sterile libertà. Nel dramma, quale abbiamo in questi tempi di decadimento, l' individualità, come dissi, è riastretta ad ognuna delle melodie che lo compongono, ristretta all' impressione degli affetti isolati che vi s' incontrano. Ma l' individualità storica, l' individualità dell' epoca che il dramma figura, l' individualità de' personaggi, ognuno de' quali rappresenta pure un' idea, dove sono? Qual' è delle somme condizioni drammatiche ch' or si verifichi nel dramma per musica? Ov' è l' elemento storico? Dove la formola dell' epoca, il colore de' tempi ne' quali il fatto rappresentato s' aggira? Dove il carattere de' luoghi ne' quali è posta la scena? Chi sa dirmi le diversità ch' oggi regnano tra la musica d' un dramma romano, e quella d' un dramma tratto dalle storie dell' Evo medio, tra le melodie d' uomini del paganesimo, e quelle che suonano su labbra di personaggi cristiani? Chi sa dirmi perché quell' attore si chiami Pollione, e quell' altro Romeo? Chi può discernere nell' opere de' maestri, la Roma repubblicana, la Roma togata, severa, rigida, guerriera, conquistatrice, dove ogni cittadino era grande di tutta la grandezza della sua patria, dove la parola suonava rotonda, altera, decisa, interprete d' un orgoglio di suolo che non concedeva allo straniero altro nome che quello di barbaro, interprete d' una fede nei destini della repubblica che non crollava per venti disfatte, dalla Venezia de' tempi di mezzo, dalla Venezia voluttuosa, spensierata, incauta, però misteriosa e tremenda, dove la vita si consumava tra l' amore e il terrore, tra un palazzo ed una prigione, tra il sospiro della giovine bellezza errante la sera sulle brezze della laguna, e il gemito sordo dell' affogato nel canale Orfano? -- E v' è pure come un' architettura, come una pittura, come una poesia, una espressione musicale per ogni epoca, e per ogni contrada. -- Perché non istudiarla? Perché non dissotterrarla da' frammenti che ne rimangono e giacciono ignoti nella polvere degli archivi e delle biblioteche, dacché nessuno li cerca con amore e costanza -- dalle cantilene nazionali che la tradizione e le madri serbano sí lungo tempo al popolo, ma che vanno via via perdendosi o sformandosi, dacché nessuno pensa a raccoglierle -- e piú ancora, dallo studio assiduo, profondo dell' indole, dei caratteri, dei fatti e dell' Arte d' ogni epoca nelle diverse contrade? E perché, afferrato una volta il pensiero dell' epoca, il concetto de' tempi, non tradurlo in note, e versarlo come un' onda, come un' aura musicale, e dopo avergli dato piú larga e formale espressione nella sinfonia, che avrebbe sempre a far vece di prologo, d' esposizione nel dramma, per tutto quanto il lavoro? Certo, l' elemento storico, non che sorgente nuova e sempre varia d' ispirazioni musicali, dev' esser base essenziale ad ogni tentativo di ricostituzione drammatica; certo, se il dramma musicale deve armonizzarsi col moto della civiltà, e seguirne o aprirne le vie, ed esercitare una funzione sociale, deve anzi tutto riflettere in sé l' epoche storiche ch' ei s' assume descrivere, quando cerca in quelle i suoi personaggi. Per questo riguardo nulla è tentato; e mentre in questi ultimi tempi, le lettere hanno progredito d' un passo, e gli scrittori di drammi (non musicali) hanno intesa la necessità, se non d' inviscerarsi nella storia, e afferrarne lo spirito, la verità, di ricopiarne, non foss' altro, la parte materiale, la realità, il dramma musicale si giace ancora nel falso ideale dei classicisti, rinnega, non la verità solamente, ma la storica realità, e -- pochi eccettuati -- i compositori di musica non sanno, né cercan sapere, se non quanto spetta direttamente all' arte d' appiccare una melodia a un pensiero determinato.
L' individualità è sacra. Ma i tanti che travedono in essa il solo esclusivo elemento di tutte cose e di tutti lavori, i tanti che in Italia ed altrove hanno spinto tant' oltre la cieca venerazione a quel vero, ma insufficiente principio, da farla degenerare in individualismo gretto ed esoso -- perché almeno non gridano a' compositori di drammi per musica, che fra tutte le individualità, l' umana è sola inviolabile, e che, cancellandola nell' arbitrio di melodie, che rappresentano concetti isolati, non uomini, è violata insolentemente la legge d' ogni esistenza, calpestata l' unità de' caratteri, eliminata una sorgente altissima d' impressione poetica? -- Perché non urlare la crociata addosso ai barbari, che fanno dei loro personaggi monete battute ad un conio, entità senza vita, fuorché quella di tenori o di bassi, usurpatori di nomi sovente storici, che sul gran teatro terrestre rappresentano pure una parte, un intento, un' idea, e sulle scene dell' opera, rappresentano voci e non altro? Ogni uomo -- e piú evidentemente chi vien scelto ad attore in un dramma, -- ha tendenze proprie, carattere proprio, stile proprio e non d' altri; è insomma un concetto che tutta una vita sviluppa. Perché non raffigurare quel concetto in un' espressione musicale appartenente a quell' individuo, non ad altri? E perché dareste uno stile di parole all' uomo, che non degnate di uno stile di canto? Perché non valervi piú frequentemente e con piú studio dell' istrumentazione, a simboleggiare, negli accompagnamenti intorno a ciascuno de' personaggi, quel tumulto d' affetti, d' abitudini, d' istinti, di tendenze materiali e morali che oprano piú sovente sull' anima sua, e la spronano a volontà, ed entrano per sí gran parte nel compimento de' suoi destini, nell' ultime deliberazioni che hanno a sciogliere il fatto speciale rappresentato? Perché non piú generi di melodia, dove sono piú generi di personaggi? Perché col ricorrere a tempo d' una frase musicale, d' alcune note fondamentali e piccanti, non tradireste la tendenza che piú spesso li domina, l' influenza dell' organo che piú spesso gli sprona? -- Due Grandi nell' Arte han segnata la via: due Grandi han creato due individualità sí potenti, che l' alta poesia drammatica non le rifiuterebbe tra le meglio disegnate dal genio. Il Don Giovanni di Mozart, e il Bertram di Meyerbeer, staranno come due tipi di profonda individualità svolta con magistero perenne, insistente, non interrotto mai dalle prime all' ultima nota. Al primo non so l' eguale, all' altro non è paragone, se non il Mefistofele di Goethe, per la costanza almeno dello sviluppo. -- Ma quanti vanno per quella via? Quanti mostrano intendere che, senza siffatto studio, non v' è dramma musicale possibile? Il solo Donizzetti, quasi sempre -- e talora divinamente. -- Ma per gli altri, è canone d' Arte? legge? intento determinato? o non piuttosto, quando afferrano talvolta un elemento del carattere rappresentato, è ispirazione prepotente, ma rotta e crollante, perché non appoggiata ad un principio?
E perché -- se il dramma musicale ha da camminar parallelo allo sviluppo degli elementi invadenti progressivamente la società -- perché il coro, che nel dramma Greco rappresentava l' unità d' impressione e di giudicio morale, la coscienza dei piú raggiante sull' anima del Poeta, non otterrebbe nel dramma musicale moderno piú ampio sviluppo, e non s' innalzerebbe dalla sfera secondaria passiva che gli è in oggi assegnata, alla rappresentanza solenne ed intera dell' elemento popolare? Oggi, il coro, generalmente parlando, è, come il popolo nelle tragedie Alfieriane, condannato all' espressione d' un' unica idea, d' un unico sentimento, in un' unica melodia che suona concordemente su dieci, su venti bocche: appare di tempo in tempo piú come occasione di sollievo a' primi cantanti, che com' elemento filosoficamente, e musicalmente distinto: prepara o rinforza la manifestazione dell' affetto o pensiero, che l' uno o l' altro de' personaggi importanti è chiamato ad esprimere, non altro. Or, perché il coro, individualità collettiva, non otterrebbe, come il popolo di ch' esso è interprete nato, vita propria, indipendente, spontanea? Perché, relativamente al protagonista o a' protagonisti, non costituirebbe quell' elemento di contrasto essenziale ad ogni lavoro, drammatico, -- relativamente a se stesso -- non darebbe piú sovente immagine, col concertato, coll' avvicendarsi, coll' intrecciarsi di piú melodie, di piú frasi musicali, intersecate, combinate, armonizzate l' una coll' altra a interrogazioni, a risposte, della varietà moltiplice di sensazioni, di pareri, d' affetti, e di desiderii che freme d' ordinario nelle moltitudini? Perché mancherebbero al genio le vie di salire musicalmente da quella inerente varietà alla non meno inerente unità, che sgorga pur sempre certa e savia da quel conflitto di tendenze e giudicii? Perché gli sarebbe difficile, traducendo il consenso venuto a gradi e per via di persuasione, risalire all' accordo generale, unendo dapprima due voci, poi tre, poi quattro, e via cosí in una serie d' intonazioni ascendenti, e per un artificio simile a quello che Haydn poneva in opera, s' io ben ricordo, ad esprimere nella Creazione il momento in cui la luce si versa dalla pupilla di Dio, su tutte le cose? O perché non balzerebbe a un tratto dall' uno al tutto ogni qualvolta il consenso emerge rapido, onnipotente, come il Mora, Mora! di Palermo, da una ispirazione, da un ricordo di gloria, da una memoria d' oltraggio, o da un oltraggio presente? I modi d' espressione popolare e di traduzione musicale son mille; né io li so; ma il Genio li sa, o li saprà quando vorrà porvi l' animo, e quando l' altre piú vitali condizioni di miglioramento adempite, gli daranno conforto a sviluppare anche questa. Bensí riesciranno indispensabili alcuni miglioramenti materiali ad un tempo di scienza, e d' altro ne' cori. Oggi, tranne in Milano, dove l' esecuzione almeno è mirabile, i cori sono quasi per tutto scelleratamente condotti.
Poi -- e scelgo a caso fra le molte inchieste che lo spettacolo del dramma musicale, com' oggi è fatto, deve, parmi, suggerire a qualunque non vi rechi gli orecchi soli -- perché il recitativo obbligato, un tempo parte principale dell' opera, a' giorni nostri sí raro, forse perché piú difficile a' cantanti ch' altri non pensa, non assumerebbe nelle composizioni future maggiore importanza, e tutta quella efficacia di cui è capace? Perché un modo di sviluppo musicale suscettibile -- e s' hanno esempi in Tartini -- de' piú alti effetti drammatici ottenuti fin qui, -- un modo che può trarre a suo talento chi ascolta per gradazioni infinite, ignote all' arie, fino agli ultimi termini d' un affetto; che può svolgere i menomi, i piú impercettibili moti del cuore, e svelarne, non rapirne, il segreto; che snuda, non l' elemento predominante, ma tutti ad uno ad uno gli elementi della passione -- un modo che anatomizza la lotta quando l' arie non possono, senza gravi difficoltà, darne che le risultanze, e che, non distraendo cosí come nell' arie l' attenzione della musica al meccanismo dell' esecuzione, lascia tutto intero alla prima il suo dominio sull' anima -- avrebbe a rimanersi sempre relegato in un angolo del dramma, anziché allargarsi perfezionato a spese delle sovente insulse cavatine e degl' inevitabili da capo? Perché non sopprimere la monotonia delle eterne e volgari cadenze, che oggimai rappresentano a noi tutti, una sorta di fatalità musicale? Perché non vietar a' cantanti, -- finché almeno i cantanti non siano piú filosofi ch' oggi non sono -- quell' arbitrio di fioriture, abbellimenti, frastagliature, alle quali s' è fatta da molto una guerra accanita, ma non tanto che non s' affaccino ancor sovente a rompere l' emozione, per mutarla in ammirazione fredda e importuna? Perché, economizzando su tutto l' inutile, ch' è pur tanto, non ampliare ove la ragione storica e l' estetica del concetto che forma l' argomento del dramma il richieggono, le proporzioni di tempo? -- E so che ai piú degli spettatori, l' opera riesce già lunga soverchiamente, e poi che manca un intento morale, non può non essere. Ma io parlo d' un tempo in cui pubblico e dramma avranno, per azione reciproca dall' uno all' altro, migliorato d' assai -- d' un tempo in cui i drammi del divino Schiller intesi e sentiti, verranno recitati senza profanazione di rifacimenti, senza infamia di mutilazioni, e il pubblico gli ascolterà riverente -- d' un tempo in cui il dramma musicale spanderà sopra una gente, non materialista, né svogliata, né frivola, ma rigenerata dalla coscienza d' un vero che dee conquistarsi, un alto insegnamento morale -- d' un tempo, in cui la musica avrà incremento alla propria potenza di tutte le potenze drammatiche accolte in uno spettacolo. So che l' educare un pubblico all' Artista è lavoro piú lento, e difficile a noi, che alla natura cacciare un Genio ad iniziatore d' un' Epoca; ma so pure che appunto per questo giova incominciare il lavoro d' educazione prima ch' ei sorga, né intendo perché in una terra dove le accademie han pullulato a migliaia, e pullulano tuttavia, e tutte tiranniche, senza intento civile, e inutili e pericolose, gli uomini che aman l' Arte di vero amore, e intravvedono quanto è vasta la missione di ch' essa è capace, non sentano il vuoto, non s' adoprino a riempirlo, non pensino a riunirsi in una santa concordia d' opere, a incoraggiamento de' giovani ingegni, e per tentare una serie d' esperimenti che darebbero in sulle prime argomento di derisione ai molti, poi di studio, poi di miglioramento reale -- cosí si preparerebbe il terreno. Poi il Genio farebbe il resto.
E il Genio -- quando la poesia, oggi serva, sarà, come ho detto, sorella della musica, e armonizzerà con essa nella proporzione che sta fra il caso speciale, e la formola algebrica -- quando i Poeti faranno drammi, non versi o peggio che versi, e poeta e musico non s' avviliranno né si tormenteranno a vicenda, ma s' accosteranno devoti e uniti al lavoro come ad un' opera di santuario, chiamando l' un sull' altro, e accomunando le ispirazioni -- quando tutte le potenze della poesia e della musica potranno dirigersi a un intento sociale -- il Genio ingigantito dalla coscienza del fine, dalla vastità dei mezzi, dalla fiducia in una immortalità ch' oggi non è dato sperare da alcuno, si leverà a cieli intentati, trarrà dall' Arte segreti non sospettati finora, diffonderà su melodie raffaellesche, per una non interrotta armonia, un' ombra di quell' Infinito ch' è l' anelito dell' anime nostre, e che si rivela da un de' mille suoi raggi nella donna, e nel cielo stellato, nel bello e nel grande, nell' amore e nella pietà, nel ricordo de' morti che s' amano, e nella speranza di rivederli. Il genio sciorrà quel problema di lotta che s' agita da migliaia d' anni, tra il bene e il male, tra l' intelletto umano e la materia, tra il cielo e l' inferno, simboleggiato da Meyerbeer, con tocchi talora di Michelangiolo, in un' opera che rimarrà gran tempo studio agli artisti; e ponendosi innanzi il concetto sociale, lo innalzerà -- e questa è la missione serbata alla musica -- ad altezza di fede negli animi, muterà le fredde e inattive credenze, in entusiasmo, l' entusiasmo in potenza di SACRIFICIO, ch' è la virtú. E il Genio a conforto e ricompensa del Sacrificio, guiderà lo spirito che vorrà fidarsegli, di cerchio in cerchio, attraverso l' espressione musicale di tutte passioni, per una scala di sublimi armonie, nella quale ogn' istrumento sarà un affetto, ogni melodia un' azione, ogni accordo una sintesi d' anima, dal fango delle sensazioni cieche, dal tumulto degli istinti materiali, al cielo degli angioli, al cielo intravveduto da Weber, da Mozart, da Beethoven, cielo di pura quiete, di coscienza serena dove l' anima si ritempra all' amore, dove la virtú è non incerta, ma secura, dove il martirio si trasmuta in vita immortale, il pianto delle madri in gemme che Dio pone a splendere sul capo de' figli, il sospiro della donna che s' ama, in bacio d' amore santo ed eterno. A me che scrivo, come a tutta questa generazione venuta in tempi che presentono, non contemplano il Genio e l' Arte rinata per lui, quel cielo non è dato. Abbiamo l' amaro, non i conforti della vita ideale; ma intravvederli, per chi verrà, è già quanto basta per aver obbligo d' affrettarli coll' opera, che i mezzi e l' ingegno concedono.
Forse v' è piú che presentimento e speranza lontana, forse, -- se a ricostituire la musica non si richiedesse che genio, e non costanza sovrumana ed energia per combattere disperatamente contro i pregiudizi, e la tirannide de' direttori venali, e la turba de' maestri e il gelo de' tempi -- anche tra' viventi avremmo chi potrebbe, volendo, levarsi all' officio di fondatore della scuola musicale Italo-europea, e porsi a rigeneratore, dov' oggi non è che primo tra quanti militano sotto le bandiere della scuola Rossiniana Italiana. Parlo di Donizetti, l' unico il cui ingegno altamente progressivo riveli tendenze rigeneratrici, l' unico ch' io mi sappia, sul quale possa in oggi riposare con un po' di fiducia l' animo stanco e nauseato del volgo d' imitatori servili che brulicano in questa nostra Italia.
Donizetti ha, in oggi ancora, il suo seggio -- seggio che nessun gli contrasta -- alla diritta di Rossini. E dall' affetto che ei pone a seguirne le massime fondamentali, dal poco studio che in lui trapela della scuola tedesca, dalla soverchia rapidità con ch' ei conduce a termine i suoi lavori, rapidità che tocca a quando a quando i confini della noncuranza, parrebbe ch' ei non estendesse piú in là l' intento della sua vita d' Artista. Pur non pertanto, giova notarlo, egli è ben altro imitatore che non furono e sono quanti scrittori di drammi musicali ha l' Italia, o meglio, egli è piú che imitatore, seguace. Egli ha adottato e seguíto sinora il sistema di Rossini, non per tedio di studio, non per impotenza d' ispirazione; bensí per intimo convincimento, e come un apostolo che scegliendo una via, pur non rinnega la propria individualità; forse, venuto a' tempi ne' quali giú in fondo, appiè del trono che Rossini s' aveva conquistato, sussurrava ancora un eco della vecchia pedanteria, gli parve malferma la nuova conquista, e si cacciò a puntellarla; forse non gli parve consumata per sempre l' emancipazione. -- E guardando al pericolo d' inerzia e di sterilità anteriore immediatamente a Rossini, fraintese anch' egli il carattere del moto ridato da quest' ultimo alla scuola italiana, e travide creazionedi vita, e incominciamento d' un' epoca, dove non era che ritorno all' antica vita interrotta, e un ultimo sviluppo a un' epoca che s' era condannata a immobilità, anziché ne avessero suonate l' ultime voci. Comunque, la potenza con che Donizzetti ha calcata la via di Rossini, è indizio d' altra potenza che non s' è rivelata finora, e che un impulso diverso susciterebbe. Poi -- e questa è speranza vitale -- il genio di Donizzetti s' è, come dissi, dimostrato fin qui progressivo, e nessuno può dire a qual punto ei s' arresterà.
Dalla Zoraide all' Anna Bolena, all' Elisir d' Amore, alla Parisina, e finalmente al Marino Faliero, alla Lucia di Lamermoor, e al Belisario, è segnata una scala proporzionale, che accenna come un termometro, i gradi di sviluppo che Donizzetti ha successivamente raggiunto, -- e forse un' accurata disamina di quasi tutti que' drammi, rivelerebbe in ognuno un progresso, un perfezionamento d' alcuno degli elementi che nella musica si manifestano. Chi nella Zoraide avrebbe mai non che indovinato, presentito il Marino Faliero? Bensí dall' Anna Bolena e dalla Parisina in poi s' è attentato dar vaticinio sull' ultimo termine d' una carriera ascendente, che ha dato sino ad oggi incremento alle forze di chi la corre? Chi sa dire se all' uomo il quale ha, come Rossini, abbracciati con uguale fecondità i due generi, serio e buffo, ad un uomo che dopo aver toccato il sublime tragico nell' Anna Bolena, ha saputo diffondere sí largamente fiori di tanta gaiezza nell' Elisir d' Amore; un passo in alto, salito forse a quest' ora, non rivelerà un novello e piú vasto orizzonte? E chi potrebbe fin d' oggi decidere s' egli sarà spronato dal suo genio a lanciarvisi, o se prevarranno su lui le abitudini d' una scuola, dove tutto ad un dipresso è tentato? Certo è che molte tra quelle norme d' innovazione, indicate piú su come spettanti per necessità di sviluppo alla rigenerazione musicale futura, si svelano sovente applicate, se per istinto di genio, o premeditatamente, non monta, nell' opere di Donizzetti, e v' appaiono in germe. Certo è, per accennarne una almeno, che l' individualità de' caratteri, cosí barbaramente negletta, da' servi copiatori delle liriche Rossiniane, è in molti de' suoi lavori pennelleggiata con rara energia, e religiosamente serbata. Chi non ha sentito nell' espressione musicale dell' Errico VIII, il linguaggio severo, tirannico e artificioso ad un tempo che la storia gli dà? E quando Lablache fulmina quelle parole:
Salirà d' Inghilterra sul trono
Altra donna piú degna d' affetto, eccetera.
chi non ha sentito chiuderglisi l' anima -- chi non ha concepito in quel momento tutto il tiranno -- chi non ha messo l' occhio nel raggiro di quella corte, che ha giurato morte a Bolena? -- Ed Anna è pur la vittima rassegnata, che il libretto -- ed anche la storia, checché altri abbia detto -- dipinge: e il suo canto è un canto di cigno che presenta il morire, un canto di persona stanca, spruzzato d' una dolce memoria d' amore. -- L' Anna Bolena è tal cosa che s' accosta all' epopea musicale. La romanza di Smeton; il duetto delle due rivali; il vivi tu, eccetera di Percy; il divino al dolce guidami, eccetera d' Anna, e generalmente i pezzi concertati, collocano irrevocabilmente quell' opera fra le prime del repertorio. L' istrumentazione, se non agguaglia ancora l' ispirazione melodica, procede almeno piena, continua, maestosamente solenne. I cori tra i quali è da notarsi singolarmente il dove mai n' andarono, eccetera; danno un finito al lavoro, che ne' termini a' quali siamo, non lascia a desiderare.
E i presentimenti di rinnovamento crescono nel Marino Faliero. Un' ombra dell' antica Venezia -- quanto almeno comportava il libretto -- si stende misteriosa, solenne sull' intero dramma. La romanza del gondoliere, pronunciata nella sinfonia e cantata soavissimamente dall' Iwanoff, -- il ballo veramente de' tempi nel finale dell' atto primo, a cui s' intreccia con tanta scienza il dialogo declamato tra Faliero e Bertucci, -- l' inno magnifico di Faliero cantato da' cori, -- la cavatina Di mia patria, o bel soggiorno, che solo un esule può intendere, e l' allegro dove un conforto d' amore spira con indicibile soavità, per entro alla languida tristezza della lontananza; -- poi, e innanzi a tutto, il nuovo, sublime e veramente ispirato duetto fra Marino Faliero e Israele Bertucci, rappresentazione profondamente vera, l' uno del principio popolare intollerante di giogo, l' altro del principio aristocratico offeso nella parte piú vitale della sua essenza, l' onore, -- quell' alternare, iroso, tronco, concitato di frasi melodiche, che non è canto, perché chi canta è l' orchestra, ma congiura reale, evidente, evocata dalle ceneri di Faliero e Israele, quella maestría mirabile di scienza musicale e di scienza fisiologica umana ad un tempo, maestria d' insistenza progressiva in Israele, di progressivo incalorimento in Faliero: diresti una lama messa da Israele nel petto del doge, che penetra, penetra, poi quando il grido d' un popolo conculcato non basta, e Israele gitta a un tratto sulla bilancia l' onta del Doge, gli si pianta nel core, -- e qual rapido annunzio delle sue vittorie a Bertucci Venezia avrà il brando di Falier, che sale alle stelle, e ti svincola l' anima da quel peso d' incertezza angosciosa che la premeva; -- e quello spegnersi di ogni lotta in un vaticinio d' azione nel fratelli, amici furono, vero guanto di sfida cacciato alla tirannide Veneta dai due principii serrati a lega di vendetta e di sangue -- e allora quell' aura di tristezza muta, secreta, non definita, ma sempre crescente, che sottentra lenta lenta all' energia della volontà, che pone ad uno ad uno gli attori del dramma sotto il dominio della fatalità, unica da qual punto in poi scioglitrice del nodo; che invade la musica, trapela nei due cori del second' atto, serpeggia, ti circonda, t' avvinghia delle sue spire in quel fatidico preludiare di violoncelli, all' io ti veggio, or piangi e tremi: si versa per ogni nota di quell' adagio ch' è un' onda di musica, s' incarna in quella movenza nuova, legata, continua, vi pone, o m' inganno, un presentimento della morte di Fernando, signoreggia dall' alto, cupa come la notte, immobile come la laguna, sull' apparire del Doge fra congiurati, e su quelle note, piene, gravi, solenni del Questo schiavo coronato; annuncia il suo trionfo vicino, in quel batter d' armi e di brandi che s' ode, e vince finalmente nell' ultimo addio di Fernando alla vita, riassumendosi tutta in quel mi bemolle su cui poggia l'intero canto, -- poi l' ultimo sforzo, l' ultimo gigantesco tentativo dell' umana volontà che concentra tremendamente tutte le sue potenze alla lotta, e si slancia disperatamente nella stretta: non un' alba, non un' ora, che chiude la scena -- poi ancora, e quando tutto è finito, l' aria cantata da Elena, l' addio di Bertucci a' suoi figli, quel conato eloquente Siamo vili e fummo prodi, che dovrebbe fare arrossire chi l' ode; il duetto finale tra la Grisi e Lablache, -- sono tutti piú o meno -- o travedo -- indizi potenti d' un genio che non s' è svolto tutto finora, che intravvede voglioso un nuovo mondo musicale, che vorrebbe bene pur correrlo, che forse inceppato, strozzato dalle mille cagioni ch' ostano in oggi al genio valente, nol correrà; ma che a ogni modo s' è rivelato in preludii, da' quali la generazione ventura trarrà, credo, argomento di dire: Quegli era potente a conquistarlo, se avesse voluto davvero.
Comunque -- egli od altri, ma la riforma musicale si compierà. Quando una scuola, una tendenza, un' epoca sono esaurite -- quando una carriera è tutta percorsa, e non rimane che a ricorrerla retrocedendo, una riforma è imminente, inevitabile, certa, perché l' umana potenza non può retrocedere. E i giovani artisti si preparino divoti, come a misteri di religione, all' iniziazione della nuova scuola musicale. Siamo alla veglia dell' armi, e i recipiendarii di cavalleria vi si preparavano raccolti nel silenzio, nella solitudine, nella meditazione de' doveri che stavano per assumere, nell' ampiezza della missione alla quale dovevano consecrarsi il dí dopo, e nella speranza generosa e fervente dell' alba novella. E i giovani artisti s' innalzino collo studio de' canti nazionali, delle storie patrie, de' misteri della poesia, de' misteri della natura, a piú vasto orizzonte che non è quello de' libri di regole, e de' vecchi canoni d' arte. La musica è il profumo dell' universo, e a trattarla come vuolsi, è d' uopo all' artista immedesimarsi coll' amore, colla fede, collo studio delle armonie che nuotano sulla terra e ne' cieli, col pensiero dell' universo. S' accostino all' opere de' grandi in musica, dei grandi, non d' un paese, d' una scuola, o d' un tempo, ma di tutti paesi, di tutte scuole, e di tutti i tempi: non per anatomizzarli e disseccarli colle fredde e vecchie dottrine di professori di musica, ma per accogliere in se stessi lo spirito creatore e unitario che move da quei lavori; non per imitarli, grettamente e servilmente, ma per emularli da liberi, e connettere al loro un nuovo lavoro. Santifichino l' anima loro coll' entusiasmo, col soffio di quella poesia eterna che il materialismo ha velata, non esigliata dalla nostra terra, adorino l' Arte, siccome cosa santa, e vincolo tra gli uomini e il cielo. Adorino l' Arte prefiggendole un alto intento sociale, ponendola a sacerdote di morale rigenerazione, e serbandola nei loro petti e nella loro vita, candida, pura, incontaminata di traffico, di vanità e delle tante sozzurre che guastano il bel mondo della creazione. -- L' ispirazione scenderà sovr' essi come un angiolo di vita, e d' armonia, ed essi otterranno che splenda su' loro sepolcri quella benedizione delle generazioni migliorate e riconoscenti, che val mille glorie, e le supera tutte di quanto la virtú supera le ricchezze che dà la fortuna, e la coscienza la lode, e l' amore ogni potenza terrena.
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