L'esangue Deborah - (tratto dall’album “Il Vile”-1996)
Testo di Cristiano Godano
L'esangue Deborah si muove gracile
e piange al sole, che non è colpevole
L'esangue Deborah languisce dietro me
Mi chiedo se lei sa che osservo il crimine
e gocciola di viltà il mio rancore
Mi chiedo se lei sa che soffro il crimine
Ma tutto ciò che ho è l'impaccio che non mortificherò
Mai
L'esangue Deborah commuove gli angeli
e il cielo è fuoco splendido d'amore
L'esangue Deborah congeda l'anima
Fra poco sprezzerà l'inganno intorno a lei...
tutto ciò che ho è l'impaccio che non mortificherò
Mai
L'esangue Deborah...
E alla fine quella cazzo di cartolina è arrivata. Con quel suo irritante celeste candore a sconquassare la mia vita per dieci mesi buoni. Un' eternità. Arrivi tutto raggiante una sera a casa dopo una giornata di lavoro e quel maledetto pezzo di carta è lì ad attenderti. Sappiamo tutti che prima o poi arriverà, ma quando succede...
Certo, il sollievo che sia per il servizio civile non è poco, ma in quei momenti è come se mi dicessero che devo andare in guerra. “Vabbé prendiamola con filosofia”, mi dico. "Ministero della difesa... la signoria vostra... ore 12... coop. soc. Il sole v.le Giulio Cesare. Bergamo...” come... lì mi hanno mandato! Ci devo restare dieci mesi! E devo partire fra tre giorni!
Mia madre tenta di consolarmi, figurati lei si aspettava un figlio strappatole per essere portato chissà dove e invece se lo ritrova a 50 km. E sì, perché io abito a Milano. Tutto sommato a lei è andata bene. Ora c'è da comunicare la notizia a mio padre, appena ritorna dal lavoro. Già me lo immagino, vecchio alpino, gli ho dato un dispiacere quando gli ho detto che volevo fare l'obiettore: quasi mi cacciava di casa! Adesso chi lo sente?
L'interregionale per Bergamo mi vede salire. Tutto penserei di fare tranne che partire. Gli ultimi tre giorni sono stati uno schifo, mi son dovuto licenziare, visto che io la cartolina non l'aspettavo se non fra tre mesi.
Ho litigato con mio padre perché secondo lui andando al militare avrei imparato tante cose; ho offerto da bere ai miei amici il sabato sera. È insolito però come la voglia di festeggiare non ci sia. È grigio oggi fuori e fa un freddo cane, porca miseria, è novembre. E devo stare in servizio fino a settembre del prossimo anno.
E quando mi passa?
È tutto andato a puttane, lavoro, soldi, tutto. E poi che cavolo mi faranno fare in questa "coop. soc. il sole"? Con chi cavolo avrò a che fare? Sbandati? Drogati? Marocchini? "Treviglio, stazione di Treviglio", manca poco a Bergamo finalmente, ma sì forse è meglio così, almeno tolto il dente tolto il dolore. E poi dove cavolo dormirò? Quel tipo di 'sta cooperativa è stato troppo evasivo per telefono. "Vienivienitiaspettiamo" ma per me tutta 'sta gentilezza è sospetta.
"Bergamo, stazione di Bergamo", gracchiante placa le mie preoccupazioni. Viale Giulio Cesare è questo. Il numero 23 è questo. Io suono.
"Sì?" voce incredibilmente squillante, tanto da disgustare.
"Ehm... sono l'obiettore" impacciato fino al midollo. Il portone vetusto si apre e finalmente posso entrare. All'interno è arredato tutto impeccabilmente, tipo ufficio di multinazionale, quasi meglio del mio. Mi viene incontro un barbuto cinquantenne, stile Guccini.
"Vieni, vieni, ti aspettavamo", non c'è dubbio che era lui al telefono.
Mi fa accomodare. "Mamma? sono io! Sì... senti, qui è tutto a posto... mi hanno spiegato che essenzialmente devo dare una mano a studiare a dei ragazzi che hanno dei particolari problemi... che insomma non vanno molto bene a scuola... il pomeriggio, mentre la mattina devo accompagnare gli anziani all'ospedale. Adesso sono nella casa che mi hanno dato, è un monolocale a Bergamo, di fronte allo stadio... sì, la casa è decente... per mangiare ho i buoni per fare la spesa e devo cucinare io... anzi ora devo proprio andare a comprare qualcosa, altrimenti non ho niente da mangiare, ciao.
"Com'è andato oggi il primo viaggio?", mi chiede Paolo Fumagalli alias Guccini il giorno dopo. "Bene direi..." in effetti guidare quel pulmino fino all'ospedale è stata una passeggiata. "Beh perché adesso viene il bello... noi siamo in contatto con le assistenti sociali del comune... ci segnalano dei ragazzi difficili e noi ci occupiamo di una parte del loro recupero... cioè quello scolastico... ora ti devi occupare di Deborah". E mi porge un fax. “Deborah *** nata a Bergamo residente in via *** 38, anni 16, più volte coinvolta in piccole risse, episodi di taccheggio. Attualmente studia al liceo *** di Bergamo. Con scarsi risultati pur essendo intelligente, ciò dovuto anche alle sue intemperanze, più volte sospesa. Rischia anche quest'anno la bocciatura è orfana di padre e vive con la madre che a causa degli orari di lavoro frequenta molto poco. Si raccomanda ai responsabili della cooperativa sociale "Il Sole" un' attività di studio costante e regolare presso il suo domicilio”.
Più sotto la firma illeggibile dell' assistente sociale che aveva redatto il tutto.
Leggo tutto questo mentre viaggio sul '23 e mi sto recando a trovare questo tipino di ragazza. "E' una sciocchezzuola" mi aveva detto il "Guccini", poco ci manca che su quel fax ci fosse scritto di armarmi. La porta si apre al sesto piano di quel casermone condominiale. "Buongiorno, mi manda la cooperativa.”
"Venga venga si accomodi" gentilezza quasi sospetta della madre.
Poi mi fa sedere e comincia a raccontarmi del fatto che Deborah non aveva retto alla morte del padre e che da allora era diventata così, mille preoccupazioni, che spera che studiando con me potrà cambiare. Troppe responsabilità!
Cerco di fargli capire che io potei solo fare qualcosa ma non tutto, solo che lei continua a farneticare “il signor Fumagalli qua il signor Fumagalli là.” Poi sentiamo la porta aprirsi. "Ecco Deborah" mi dice la madre.
Bianca, bianchissima, non credo di aver mai visto una pelle così chiara, limpida quasi inquietante, ma tutto in lei ha le tonalità estreme della luce accecante.
I capelli biondissimi, sembrano costituti da un minerale capace di riflettere ogni tonalità della luce, gli occhi gelidi di giaccio a tratti quasi marmorei. Di fronte a tutto ciò passa in secondo piano l'impalpabilità del suo corpo, sottile, sinuoso, leggero ma di un' inconsistenza seducente. È letteralmente un cadavere, ma di un rarefatto incanto, come se la morte l'avesse presa dolcemente, cullandola.
È l'esangue Deborah. "Io esco" dice. "Come esci? C'è qui l'obiettore per i compiti… e te ne vai? Deborah? Deborah??? Deborah???", l'urlo lacerante della madre si infrange contro la rudezza di quella porta sbattuta con una indifferenza mostruosa. Lacrime seguono copiose. "No, così non va… dovevi inseguirla… convincerla a cambiare idea… cavolo un po' di iniziativa… così non hai fatto un tubo per tre ore". "Ma scusi cosa pretendeva? che mi mettessi alle calcagna di una persona che non conosco per tutta Bergamo?" "Esatto" la determinazione di Fumagalli la sconterò sulla mia pelle.
Il giorno dopo stesso programma, stesso appuntamento a casa di Deborah. Sento aprire la porta. Un alone gelido si diffonde per la casa. Stavolta mi lancia uno sguardo gravido di disprezzo e gonfio di odio. Poi fugge via, di nuovo velocemente. E io con lei. La raggiungo appena dopo la soglia del portone dello stabile.
"Deborah, Deborah, aspetta"
"Chi sei? che vuoi? sono stanca di persone che mi dicono quello che devo fare!!"
"Guarda che tutto questo lo hanno deciso per il tuo bene."
"Senti facciamola finita, visto che se no mia madre mi fa le paranoie … devo fare un po' di matematica … poi aria".
Devo scendere a compromessi con la sua flebile capacità di contrattazione, in contrasto con il suo aspetto così etereo.
Quella è stata l'unica volta che sono riuscito a scorgere nel suo pallore una carica di emotività latente.
Deborah il giorno successivo non si ripresenta.
"Signora senta dove posso trovarla?"
"Ma in genere va ai giardini di via *** ma stai attento … ". Ci manca pure questa, alla caccia di una ragazza che non conosco, in una città che non conosco. Ai giardini di via *** di Deborah non vi è traccia. Faccio per tornare alla cooperativa, pronto ad un' altra lavata di testa di Fumagalli, quando la vedo in tutto il suo biancore, seduta sulla panchina di una pensilina dell'autostazione, il luogo più brutto di tutta Bergamo, e proprio per questo Deborah risalta in quel sudiciume.
"Allora?"
"Portami a casa..." poi scoppia in lacrime. Le più belle che abbia visto in vita mia.
"Bravo, bravo così si fa!!" Fumagalli gongola come un bambino estasiato dal fatto che sono andato in giro come un coglione per Bergamo alla ricerca di Deborah.
"Ma secondo me 'sta ragazza ha qualche cosa di strano... boh! non mi convince... ma non sapete chi frequenta?".
"Eh no mica possiam fare tutto noi".
Capisco che quel che fanno era sufficiente per ottenere le sovvenzioni. Ma a me tutto quel pallore non mi convince.
Sono le sei di sera, il mio turno è finito. Vado a casa di Deborah anziché a casa mia, come calamitato da quel suo gracile essere esangue.
"Deborah posso entrare?" attendo la sua risposta affermativa con trepidazione. Sua madre non c'è. Inspiegabilmente capto la sua presenza oltre quella fredda porta. Scatta la serratura. La porta si spalanca e mi appare lei di spalle che si dirige verso il salotto. Il biondo quasi albino della sua chioma mi guida. Ci sediamo alla estremità di un lungo tavolo.
"Deborah... mi dici che hai? Porca miseria, stai sempre in giro, non fai mai un tubo! Perché non cominci a darti una calmata?"
Sono adirato.
Il suo sguardo mi sembra per la prima volta vivo, concreto, consistente.
"Senti, io ho tanti guai e tanta di gente che mi comanda a bacchetta... e poi... adesso... mi son lasciata trasportare e sono nei cazz..." si blocca, di nuovo il suo sguardo si perde.
"Che hai combinato ora?". non mi risponde ma cordialmente mi invita ad andarmene. Le obbedisco come in trance.
Il giorno dopo mi sveglia Fumagalli. Deborah non c'è più. La trovano in quella stessa panchina in cui l ' avevo vista io quel giorno. Un ago piantato ancora in vena. Forse è per quello che era nei guai. Di certo la morte non l'avrebbe sfigurata. Forse perché della morte stessa lei era figlia.
Lei era l'esangue Deborah.
Ineluttabile (tratto dall’album “H.U.P”-1999)
Testo di Cristiano Godano
Chili di silenzio per inaugurare un nuovo gioco
(solo agli sguardi è concesso di sperdersi nell'aria)
perché un sospiro può affilare il taglio del rasoio
e di nuove lacerazioni non c'è voglia
Nessuna possibilità di condividere sfiducia
costretti a un'immobilità colpevole
Il buio è un peso, è un imbroglio e brucia come il fuoco
Le cose opache lì intorno si muovono:
detta il ritmo lo smacco di ogni preghiera
e non c'è pace latente da cogliere
Nessuna possibilità di condividere sfiducia
costretti all'immobilità, noi carne esanime e sfinita
Nostri i corpi arresi al gelo dell'apnea!
Patiranno il giro di vite ineluttabile
Chili di silenzio sulla nostra pena
gran regina dell'incubo che verrà
Come girano i colori ed i sapori nella vita vera?
Qui per ora è nero come Angoscia e amaro come Fiele
E lì?
È così serio. Eppure sembra tranquillo. D'altronde ha avuto questa bell ' idea di venire a passare il fine settimana al casolare del nonno.
"Va tutto bene?", gli chiedo lasciva, mi risponde scontatamente annuendo e sorridendo. Poi mi dà un bacio.
Quando arriviamo, sono ormai le sette di sera, una sera di fine Aprile nitida, bella con un cielo terso e le stelle già evidenti a solcare il manto blu dell'imbrunente orizzonte. Le luci dei paesi in lontananza sembrano voler ribattere allo splendore degli astri con le luci dei paesi in lontananza. Si respira atmosfera di Pavese. Ad ogni sguardo. Entriamo nel piccolo casolare, arredato con stile contadino.
"Io preparo qualcosa da mangiare" mi dice portando con sé la borsa con i viveri per quei due giorni.
"Tu riposati, penso a tutto io". Ma poi mi chiama dalla cucina: "Ascolta, nel mio zaino c'è l'accendino... me lo porteresti?".
Mi alzo e frugo nel suo zaino. Salta fuori una busta con sopra il mio nome.
Penso fra me e me: "Beh, una lettera per me? Diceva sempre che sono idiote le lettere d'amore...".
"...l' accendino!"
"Arrivo, arrivo". Gli consegno l'accendino mentre è intento a stuprare un pomodoro.
"Perché ridi?" mi dice.
"Niente, niente" rispondo evasiva e mi dirigo sul divano a gustarmi il contenuto di quella lettera. L'apro, comincia con il mio nome seguito da diversi punti di sospensione...
Comincio a piangere, poi a singhiozzare. Sempre più forte, fino a soffocare, lui mi sente, mi dice "Che cosa c'è?".
Poi viene di qua, mi guarda piangente, all' inizio non capisce poi riconosce la lettera e impallidisce. Si volta verso il muro e comincia a prenderlo a pugni. Lo fermo dopo qualche minuto, quando ormai ha già le nocche insanguinate.
Gli sussurro "Perché??".
Si siede sul divano con la testa tra le mani. Io lo seguo. Mentre lo guardo penso a quella lettera. Dio ci fosse stato scritto che mi vuole lasciare... ma c'è scritto che lui vuole morire! Morire! Smetterla di vivere perché non ce la fa più!!
C'è scritto che quello è il nostro ultimo weekend... Poi in settimana... poi via... non l'avrei più rivisto! Adesso piange anche lui, cerco di abbracciarlo ma si oppone.
"Perché?, perché?, perché??" stavolta urlo. Si volge verso di me. Comincia a parlare.
"Vedi io non so perché, ma più vado avanti e più mi rendo conto che tutto è triste, nulla è apprezzabile davvero, tutto è ricoperto di gioia puramente effimera, l'unica eccezione rimani tu! Ma io con tutto il resto che non gira non riesco nemmeno ad apprezzarti... avrai notato che da qualche tempo tra di noi è sceso un po' il silenzio... ma non poco, a chili, a chili capisci! Questo è stato il primo campanello d'allarme che mi ha fatto riflettere sul gioco tragico di questa vita.
Lo so che adesso dirai "machebravochesei, vivereèdifficilepertutti, reagisci". Vedi io sono arrivato alla consapevolezza che non ci sia nulla da cambiare, se non la mia presenza lacerata. La mia immobilità è colpevole. Davanti a me vedo solo il buio, tetro, vuoto e questo pesa credimi! Ogni tentativo di cambiare le cose si rivela un fallimento e lo smacco di ciò è ogni volta insopportabile. Sento sempre tanto gelo intorno a me. Sono sfinito dall' ingoiare angoscia e fiele...".
Poi smette di parlare. Adesso non è più sconvolto. Anzi è rilassato, lucido. E anch'io lo sono. Ora tocca a me. Non c'e' dubbio.
Vuole davvero farla finita, è troppo disinvolto per apparire folle, tutt'altro. Proprio questo mi incute timore. E ' determinato, assurdamente determinato.
Riprendo a piangere poi accenno una frase ingenua, incompatibile con quella sua determinazione.
"Ma a me non pensi?!"
Lui ancor più sereno mi risponde "è proprio perché penso a te, che mi sento ancor più in dovere di smetterla... basta con le recite! Non voglio che tu conviva con un attore". Sorride! Adesso addirittura sorride.
È un incubo, è solo un incubo, cerco di ripetermi. Ora siamo seduti sul divano, sfondatissimo e lacerato.
"Allora il fatto di venire qua è il tuo modo di dirmi addio?".
Mentre continua a guardare dritto di fronte a sé annuisce indifferente.
"Ma ti rendi conto che se non avessi visto questa lettera per sbaglio... uscita di qua non ti avrei più rivisto?! La capisci la follia di tutto ciò?! Ti prego cerca di ragionare... ti prego!".
Esplodo di nuovo a piangere. Lui di fianco a me permane in quello stato di assenza, trasudante però una sicurezza estrema.
"Ho già ragionato!" e disincantatamente si alza e si reca alla finestra.
Mentre mi asciugo le lacrime rifletto sulla sua oscena tranquillità, non riesco a capacitarmi di come sia possibile prendere certe decisioni in modo pacato. Improvvisa poi un'idea folle mi assale, deflagrante, sconvolgente, dettata forse dalla sua caparbietà in quel contesto così drammatico. Flebile una richiesta sgorga dalle mia bocca, ancora tesa al ricordo dei baci che fino a poche ore fa mi aveva dato. Il confronto tra quei momenti e questo simultaneamente a quello che sto per dirgli è lancinante.
"Adesso, ora!!". Superficialmente pare non colpito, ma una strana vibrazione si coglie sulla sua schiena, tanto che si volta dopo pochi istanti di palpabile esitazione.
"Che cosa ora?". La sua fortezza di cinismo mi appare ora depauperata di buona parte della sua tenacia.
"Se davvero vuoi andartene, se sei arrivato ad un punto tale che non credi più che il suicidio sia una conseguenza di una serie di fallimenti, ma una delle tante realizzazioni possibili, devi andartene qui, stanotte davanti a me!".
Adesso il tutto si è rovesciato, sono io ad essere cieca nella mia candida sicurezza, mentre lui adesso è pallido. Sicuramente non si aspettava una tale proposta, ma mi guarda esattamente come io osservavo lui prima: privo di ogni sospetto che ciò che l'altro dica sia figlio di una qualsiasi forma di delirio. Mi guarda, solennemente, poi si avvicina e mi bacia, credo come non l'abbia mai fatto prima. Piangendo.
La rocca di menefreghismo stoico dietro cui si era celato è crollata. In un orecchio mi sussurra:
"Va bene... ora vado giù nella cantina, prendo una corda e..."
Gli tappo la bocca. Non voglio sentire altro ma gli rispondo mestamente in maniera distaccata:
"Qui proprio dinnanzi a me non credo di poterlo sopportare... fallo giù in cantina, ti prego...".
Poi gli asciugo le lacrime. Indietreggia, muove la mano stentatamente. Credo che sia il suo "ciao".
Poi lo sento scendere nervoso le scale. A me non resta che ritornare su quel divano sfondato.
Mi scorrono incessantemente davanti tutte le immagini significative della nostra convivenza. Cercando di tagliare disperatamente quei minuti, mi reco alla finestra.
Le luci sfavillanti di un paese in lontananza mi invitano a riflettere sulla strane motivazioni che mi spingono ad avallare le sue nefaste voglie. Complicità? Masochismo? E soprattutto dovrò porgermi questa domanda per tutta la mia esistenza? Forse l'unica risposta plausibile è che sono andata oltre un certo modo di vivere una relazione, uscendo dall'adolescenziale "t.v.b." per correre il rischio di cimentarsi con la voglia di "volere il bene dell'altro" anche se ciò conduce ad estreme conseguenze.
Un tonfo metallico improvvisamente mi fa sussultare. Proviene da quella orribile cantina.
Istintivamente mi dirigo verso le scale. Ma la più violenta delle scene che io abbia mai concepito mi fa trasalire. Lo immagino penzolante dal soffitto, con ai piedi la sedia rovesciata per darsi l'estremo slancio. Quello che ha prodotto quel suono così inquietante.
"Se n'è andato!!" farfuglio ad alta voce, poi piangente mi butto sul divano sfondato.
"Vaffanculo!!" mi dico. Poi calcio via la sedia piangendo, quella sedia che avrei dovuto usare per darmi l'estremo slancio.
Ora sono prostrato a terra, incapace di prendere alcuna decisione sul da farsi. Continuare nel mio progetto, pianificato ormai da tempo. Oppure arrendermi all'evidenza del fatto che se lei ha scoperto tutto, e segno che forse mi debba arrendere, accettare la sconfitta e spegnermi lentamente, come fanno tutti. Sarei dovuto già essere morto a quest'ora, eppure son vivo, vitale non direi.
La raffigurazione del mio funerale, che in tempi recenti mi aveva quasi inorgoglito, ora mi appare intrinsecamente deprimente, trasudante sadismo se rapportata a quei pochi intimi che il mio gesto può far soffrire. Adesso i ricordi mi investono, per ironia solo i più validi.
Comprendo quelli donatemi da colei che qualche metro sopra di me mi piange. Immeritatamente. All'ultimo mi è mancato il coraggio. O almeno qualcosa è venuto meno. Non so se il coraggio stia nell'essersi fermati o nel proseguire.
Proporzionalmente mi risulta difficile attribuire al fatto che io sia ancora qui un valore di vittoria o di disfatta. Ma posso considerarmi ora, dopo tanto tempo, finalmente, sereno. Felice per fortuna no. Odio la felicità a causa della sua ineluttabile caducità.
Di corsa, salgo quelle scale, la cerco affannosamente. Ma non la trovo. Poi il calpestio di bagnaticcio mi fa guardare verso il basso. Un fiume rosso mi si propone ai miei piedi, fuoriuscente dal bagno.
Ansimante ne spalanco la porta socchiusa. E' riversa a terra, con una lametta ancora conficcata nel polso destro. Sangue è tutto ciò che la ricopre. E' cianotica! E' fredda!... E' morta!
Dovrei piangere. Ma ora ciò che più mi preme è continuare ciò che avevo interrotto. Ora avevo un motivo in più. L'averne causato la morte. Con delicatezza gli estraggo la lama dal braccio, per evitarle ogni ulteriore martirio, una mia lacrima cade all'altezza della ferita. Mi alzo, ma mentre mi accingo a conficcarmi la lama nel polso sinistro, la mia attenzione è catturata dallo specchio scrostato del bagno. Un volto di donna, stilizzato, sorridente, realizzato con il sangue vi è impresso sopra. Più sopra una scritta stentata: "Tu no!"
Getto via la lama. E abbraccio chi per due volte mi ha tratto in salvo dalla mia ineluttabile schizofrenia, affogando la sua esistenza nel suo stesso sangue.
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